RAFFAELLO SANZIO - I Personaggi Marchigiani
Raffaello Sanzio (Urbino, 28
marzo o 6 aprile 1483 – Roma, 6 aprile 1520) è stato un pittore e architetto
italiano, tra i più celebri del Rinascimento italiano.
Raffaello fu uno dei pittori più
influenti della storia dell'arte occidentale. La sua ripresa dei temi
michelangioleschi, mediati dalla sua visione solenne e posata, fu uno degli
input fondamentali del manierismo. Gli allievi della sua bottega ebbero
frequentemente carriere indipendenti in più corti italiane ed europee, che
diffusero ovunque la sua maniera e i suoi traguardi.
Senza le opere monumentali della
fase romana è impensabile il "classicismo" del secolo successivo, al
tempo stesso aggraziato e magniloquente, dei Carracci, di Guido Reni, di
Caravaggio, Rubens e Velázquez. Modello imprescindibile ancora nella fase delle
accademie sette-ottocentesche, fece da fonte di ispirazione a maestri anche
molto diversi come Ingres e Delacroix, che trassero da lui spunti differenti.
Nel corso del XIX secolo la sua opera ispirò ancora importanti movimenti, come
quello dei Nazareni e quello dei Preraffaelliti, questi ultimi interessati alla
sua estetica giovanile, legati a un'arcadica rievocazione del Quattrocento e
del primissimo Cinquecento italiano, prima appunto del "Raffaello
classicista".
APPREDISTATO PERUGINO
Le prime tracce della presenza di
Raffaello accanto a Perugino sono legate ad alcuni lavori della sua bottega tra
il 1497 e il nuovo secolo. In particolare si è ritenuto di vedere un intervento
di Raffaello nella tavoletta della Natività della Madonna nella predella della
Pala di Fano (1497) e in alcune figure degli affreschi del Collegio del Cambio
a Perugia (dal 1498), soprattutto dove le masse di colore assumono quasi un
valore plastico ed è accentuato il modo di delimitare le parti in luce e quelle
in ombra, con un generale ispessimento dei contorni. Se comunque la sua mano è
ancora difficile da individuare, a Perugia Raffaello dovette vedere per la
prima volta le grottesche, dipinte sul soffitto del Collegio, che entrarono in
seguito nel suo repertorio iconografico.
Sembra però che la sua prima
opera cui possa darsi un reale credito attributivo sia la Madonna col Bambino,
affrescata nella stanza in cui si crede sia nato, in casa Santi a Urbino,
databile al 1498 (e che fino a pochi anni addietro si riteneva opera del padre,
che avrebbe raffigurato nei personaggi lo stesso Raffaello e la prima moglie
Maria Ciarla).
CITTA’ DI CASTELLO
Crocifissione Gavari (1503-1504 |
Nel 1499 Raffaello, sedicenne, si
trasferì con gli aiuti della bottega paterna a Città di Castello, dove
ricevette la sua prima commissione indipendente: lo stendardo della Santissima
Trinità per una confraternita locale che voleva offrire un'opera devozionale in
segno di ringraziamento per la fine di una pestilenza proprio quell'anno. L'opera,
sebbene ancora ancorata agli echi di Perugino e Luca Signorelli, presenta anche
una profonda, innovativa freschezza, che gli garantì una fiorente committenza
locale, non essendo reperibili in città altri pittori di pregio dopo la
partenza di Signorelli proprio nel 1499, alla volta di Orvieto.
Il 10 dicembre 1500 infatti,
Raffaello ed Evangelista da Pian di Meleto ottennero dalle monache del
monastero di Sant'Agostino un nuovo incarico, che è il primo documentato della
carriera dell'artista, la Pala del beato Nicola da Tolentino, terminata il 13
settembre 1501 e oggi dispersa in più musei dopo che venne sezionata in seguito
a un terremoto nel 1789. Nel contratto è interessante notare come Raffaello,
poco più che esordiente, venga già menzionato come magister Rafael Johannis
Santis de Urbino, prima dell'anziano collaboratore, testimoniando ufficialmente
come venisse già, a diciassette anni, ritenuto pittore autonomo
dall'apprendistato concluso.
A Città di Castello l'artista
lasciò almeno altre due opere di rilievo, la Crocifissione Gavari e lo
Sposalizio della Vergine. Nella prima, databile al 1502-1503, si nota una piena
assimilazione dei modi di Perugino (un "Crucifisso, la quale, se non vi
fusse il suo nome scritto, nessuno la crederebbe opera di Raffaello, ma sì bene
di Pietro", scrisse Vasari), anche se si notano però i primi sviluppi
verso uno stile proprio, con una migliore interazione tra figure e personaggi e
con accorgimenti ottici nelle gambe di Cristo che testimoniano la piena
conoscenza degli studi di matrice urbinate, dove l'ottica e la prospettiva
erano materia di studio comune fin dai tempi di Piero della Francesca.
PERUGIA E ALTRI CENTRI
Nel frattempo la fama di
Raffaello cominciava ad allargarsi a tutta l'Umbria, facendone uno dei più
richiesti pittori attivi in regione. Nella sola Perugia, negli anni tra il 1501
e il 1505, gli vennero commissionate ben tre pale d'altare: la Pala Colonna,
per la chiesa delle monache di Sant'Antonio, la Pala degli Oddi, per San
Francesco al Prato e un'Assunzione della Vergine per le clarisse di Monteluce
mai portata a termine, dipinta poi da Berto di Giovanni[11]. Si tratta di opere
di impianto peruginesco, con una graduale messa a fuoco verso elementi
stilistici più personali.
Nella Resurrezione di San Paolo
del Brasile Roberto Longhi lesse influssi di Pinturicchio - nel paesaggio, nei
particolari della decorazione del sarcofago e nella preziosità delle vesti dei
personaggi - legati a una fase databile al biennio 1501-1502.
Allo stesso periodo sono
riferibili alcune Madonne col Bambino che, sebbene ancora ancorate all'esempio
di Perugino, preludono già all'intenso e delicato rapporto tra madre e figlio
dei più importanti capolavori successivi legati a questo tema[12]. Tra queste
spiccano Madonna Solly, la Madonna Diotallevi, la Madonna col Bambino tra i
santi Girolamo e Francesco[8].
Verso il 1503 l'artista dovette
intraprendere una serie di brevi viaggi che lo portarono ai primi contatti con
importanti realtà artistiche. Oltre alle città umbre e alla nativa Urbino,
visitò quasi sicuramente Firenze, Roma (dove assistette alla consacrazione di Giulio
II) e Siena. Si trattò di brevi viaggi, magari di qualche settimana, che non
possono essere definiti veri e propri soggiorni[11]. A Firenze vide forse le
prime opere di Leonardo da Vinci, a Roma entrò in contatto con la cultura
figurativa classica (leggibile nel dittico delle Tre Grazie e il Sogno del
cavaliere[10]), a Siena aiutò l'amico Pinturicchio, ben più anziano e in pieno
declino, a preparare i cartoni per gli affreschi della Libreria Piccolomini, di
cui restano due splendidi esemplari agli Uffizi, di incomparabile grazia ed
eleganza rispetto al risultato finale.
A SIENA
A Siena fu invitato da
Pinturicchio, con il quale intesseva una stretta amicizia. Il pittore più
anziano invitò Raffaello a collaborare agli affreschi della Libreria
Piccolomini, fornendo dei cartoni che svecchiassero il suo stile ormai in una
fase di declino, come si vede nei precedenti affreschi della Cappella Baglioni
a Spello.
Non è chiaro quante di queste
composizioni vennero in effetti disegnate da Raffaello, ma quasi sicuramente
deve essere di mano del Sanzio il cartone con la Partenza di Enea Silvio
Piccolomini per Basilea oggi al Gabinetto dei Disegni e delle Stampe di Firenze.
Raffaello dovette infatti
abbandonare presto l'impresa, poiché, come riporta Vasari, venne a conoscenza,
tramite alcuni pittori locali, delle lodi straordinarie a proposito del cartone
della Sant'Anna di Leonardo, esposto nella basilica della Santissima Annunziata
a Firenze, nonché del disegno della Battaglia di Anghiari, sempre di Leonardo,
e del cartone della Battaglia di Cascina di Michelangelo, che incuriosirono a
tal punto il giovane pittore da farlo decidere di partire subito per la città
sull'Arno.
LO SPOSALIZIO DELLA VERGINE
Sposalizio della Vergine (1504) |
L'opera che conclude la fase
giovanile, segnando un distacco ormai incolmabile con i modi del maestro
Perugino, è lo Sposalizio della Vergine, datato 1504 e già conservato nella
cappella Albizzini della chiesa di San Francesco di Città di Castello. L'opera
si ispira a una pala analoga che il Perugino stava dipingendo in quegli stessi
anni per il Duomo di Perugia, ma il confronto tra le due opere mette in risalto
profonde differenze. Raffaello infatti copiò il maestoso tempio sullo sfondo,
ma lo alleggerì allontanandolo dalle figure e ne fece il fulcro dell'intera
composizione, che sembra ruotare attorno all'elegantissimo edificio a pianta
centrale. Anche le figure sono più sciolte e naturali, con una disposizione nello
spazio che evita un rigido allineamento sul primo piano, ma si assesta a
semicerchio, bilanciando e richiamando le forme concave e convesse del tempio
stesso.
A Firenze Raffaello soggiornò per
quattro anni, pur facendo viaggi e brevi soggiorni altrove, e senza recidere i
contatti con l'Umbria, dove continuò a spedire pale d'altare per le copiose
commissioni che continuavano a giungergli.
Al centro del quadro vengono
posizionati un gruppo di persone divise in due schiere, aventi come perno il
sacerdote, il quale celebra il matrimonio tra la vergine Maria e San Giuseppe
suo sposo. Il gruppo delle donne (dietro Maria) e il gruppo di uomini ( dietro
Giuseppe) formano due semicerchi aperti rispettivamente verso il tempio e verso
lo spettatore.
IL PERIODO FIORENTINO
Madonna del Cardellino (1506 circa) |
Raffaello si trovava a Siena, da
Pinturicchio, quando gli giunse notizia delle straordinarie novità di Leonardo
e Michelangelo impegnati rispettivamente agli affreschi della Battaglia di
Anghiari e della Battaglia di Cascina. Desideroso di mettersi subito in
viaggio, si fece preparare una lettera di presentazione da Giovanna Feltria,
sorella del duca di Urbino e moglie del duca di Senigallia e
"prefetto" di Roma. Nella lettera, datata 1º ottobre 1504 e
indirizzata al gonfaloniere a vita Pier Soderini, si raccomanda il giovane
figlio di Giovanni Santi «il quale avendo buono ingegno nel suo esercizio, ha
deliberato stare qualche tempo in fiorenza per imparare. [...Perciò] lo
raccomando alla Signoria Vostra».
Probabilmente la lettera voleva
assicurare qualche commissione ufficiale al giovane pittore, ma il gonfaloniere
era in ristrettezze economiche per il recente esborso per acquistare il David
di Michelangelo e i grandiosi progetti per la Sala del Gran Consiglio.
Nonostante ciò non passò molto tempo che l'artista riuscì a garantirsi
commissioni da alcuni facoltosi cittadini soprattutto residenti in Oltrarno,
come Lorenzo Nasi, per il quale dipinse la Madonna del Cardellino, suo cognato
Domenico Canigiani (per cui fece la Sacra Famiglia Canigiani), i Tempi (Madonna
Tempi) e i coniugi Agnolo e Maddalena Doni.
Nel clima artistico fiorentino,
fervente più che mai, Raffaello strinse rapporti d'amicizia con altri artisti,
tra cui Aristotile da Sangallo[15], Ridolfo del Ghirlandaio, Fra' Bartolomeo,
l'architetto Baccio d'Agnolo, Antonio da Sangallo, Andrea Sansovino, Francesco
Granacci. Scrisse Vasari che «nella città molto onorato e particolarmente da
Taddeo Taddei, il quale lo volle sempre in casa sua e alla sua tavola, come
quegli che amò sempre tutti gli uomini inclinati alla virtù». Per lui Raffaello
eseguì, nel 1506, la Madonna del Prato di Vienna - che il Vasari giudica ancora
della maniera del Perugino e, forse l'anno dopo, la Madonna Bridgewater di
Londra, «molto migliore», perché nel frattempo Raffaello «studiando apprese».
Il soggiorno fiorentino fu di
fondamentale importanza nella formazione di Raffaello, permettendogli di
approfondire lo studio dei modelli quattrocenteschi (Masaccio, Donatello,...)
nonché delle ultime conquiste di Leonardo e di Michelangelo. Dal primo apprese
i principi compositivi per creare gruppi di figure strutturati plasticamente
nello spazio, mentre sorvolò sulle complesse allusioni e implicazioni
simboliche, sostituendo anche l'"indefinito" psicologico a sentimenti
più spontanei e naturali. Da Michelangelo invece assimilò il chiaroscuro
plastico, la ricchezza cromatica, il senso dinamico delle figure.
I suoi lavori a Firenze erano
destinati quasi esclusivamente a committenti privati, gradualmente sempre più
conquistati dalla sua arte; creò numerose tavole di formato medio-piccolo per
la devozione privata, soprattutto Madonne e Sacre famiglie, e alcuni intensi
ritratti. In queste opere variava continuamente sul tema, cercando
raggruppamenti e atteggiamenti sempre nuovi, con una particolare attenzione
alla naturalezza, all'armonia, al colore ricco e intenso e spesso al paesaggio
limpido di derivazione umbra.
COMMISSIONI DALL’UMBRIA
Ma all'inizio del soggiorno
fiorentino erano soprattutto le commissioni che continuavano ad arrivare da
Urbino e dall'Umbria a tenere occupato l'artista, che di tanto in tanto si
spostava in quelle zona temporaneamente. Nel 1503 aveva ricevuto l'incarico,
dalle monache del convento di Sant'Antonio a Perugia, di una pala d'altare, la
Pala Colonna, che ebbe una lunga elaborazione, visibile nelle differenze di
stile tra la lunetta ancora «umbra» e il gruppo «fiorentino» della tavola
centrale[18].
Un'altra commissione ricevuta da
Perugia, nel 1504, riguardò una Madonna col Bambino e i santi Giovanni Battista
e Nicola (Pala Ansidei) da collocare in una cappella della chiesa di San
Fiorenzo, che fu completata, secondo quanto sembra leggersi nel dipinto, nel
1505. Nell'opera ancora di ispirazione umbra, Raffaello apporta una sostanziale
semplificazione dell'impianto architettonico, così da dare all'insieme una più
efficace e rigorosa monumentalità, di stampo leonardesco. In tale opera,
nonostante il tema convenzionale, sorprende il dominio del mezzo pittorico,
ormai pienamente maturo, con le figure che acquistano consistenza in funzione
del variare della luce[18].
Sempre nel 1505 firmò a Perugia
l'affresco con la Trinità e santi nella chiesa del monastero di San Severo, che
anni dopo Perugino completò nella fascia inferiore. In questo lavoro le forme
sono ormai più grandiose e possenti, con una monumentalità immota che rimanda
all'esempio di Fra' Bartolomeo e che preannunciano la Disputa del Sacramento.
COMMISSIONI DALLE MARCHE
Nel 1505-1506 Raffaello dovette
trovarsi brevemente a Urbino, dove venne accolto alla corte di Guidobaldo da
Montefeltro: la fama raggiunta nella sua città natale è testimoniata da una
menzione lusinghiera nel Cortegiano di Baldassarre Castiglione e da un serie di
ritratti, tra cui quello di Guidobaldo, di Elisabetta Gonzaga sua consorte e
dell'erede designato del ducato Guidobaldo della Rovere.
Per il duca inoltre dipinse una
grande Madonna e tre tavolette di soggetto simile, San Michele e il drago, un
San Giorgio e il drago oggi a Parigi e uno a Washington. Quest'ultimo venne
dipinto per essere regalato a Enrico VII d'Inghilterra come ringraziamento per
il conferimento dell'Ordine della giarrettiera: la giarrettiera è infatti
evidente al polpaccio del cavaliere, con l'iscrizione "Honi" che è la
prima parola del motto dell'ordine ("Honi soit qui mal y pense",
"Sia vituperato chi ne pensa male").
LA SERIE DELLE MADONNE
Madonna del Belvedere |
Celebre è la serie delle Madonne
col Bambino che a Firenze raggiunge nuovi vertici. Per famiglie fiorentine
della borghesia medio-alta Raffaello dipinse alcuni capolavori assoluti, come
alcuni gruppi di Madonne a tutta figura col Bambino e san Giovannino: la Bella
giardiniera, la Madonna del Cardellino e la Madonna del Belvedere. In queste
opere la figura della Vergine si erge monumentale davanti al paesaggio,
dominandolo con leggiadria ed eleganza, mentre rivolge gesti affettuosi ai
bambini, in strutture compositive piramidali di grande efficacia. Gesti
familiari si riscontrano anche in opere come la Madonna d'Orleans, come quello
di solleticare, o spontanei come nella Grande Madonna Cowper (Gesù allunga una
mano verso il seno materno), o ancora sguardi intensi come nella Madonna
Bridgewater.
Queste figure dimostrano inoltre
l'assimilazione di vari modelli iconografici fiorentini, che dovevano ispirare
positivamente la committenza. Da Donatello ad esempio prende spunto per la
Madonna Tempi, con i volti di madre e figlio teneramente accostati, mentre al
Tondo Taddei rimandava la postura del Bambino della Piccola Madonna Cowper o
della Madonna Bridgewater.
Le composizioni divengono via via
più complesse e articolate, senza però mai rompere quel senso di idilliaca
armonia che, unita alla perfetta padronanza dei mezzi pittorici, fanno di
ciascuna opera un autentico capolavoro. Nella Sacra Famiglia Canigiani,
databile al 1507 circa, quindi quasi alla fine del soggiorno fiorentino, le
espressioni e i gesti si intrecciano con sorprendente varietà, che riesce a
rendere sublimi e poetici dei momenti tratti dalla quotidianità.
IL PERIODO ROMANO
Verso la fine del 1508 per
Raffaello arrivò la chiamata a Roma che cambiò la sua vita. In quel periodo
infatti papa Giulio II aveva messo in atto una straordinaria opera di rinnovo
urbanistico e artistico della città in generale e del Vaticano in particolare,
chiamando a sé i migliori artisti sulla piazza, tra cui Michelangelo e Donato
Bramante. Fu proprio Bramante, secondo la testimonianza di Vasari, a suggerire
al papa il nome del conterraneo Raffaello, ma non è escluso che nella sua
chiamata ebbero un ruolo decisivo anche i Della Rovere, parenti del papa, in
particolare Francesco Maria, figlio di quella Giovanna Feltria che già aveva
raccomandato l'artista a Firenze.
Fu così che il Sanzio, appena
venticinquenne, si trasferì velocemente a Roma, lasciando incompiuti alcuni
lavori a Firenze.
LA STANZA DI SEGNATURA
Scuola di Atene, Stanza della Segnatura |
Qui affiancò una squadra di
pittori provenienti da tutta Italia (il Sodoma, Bramantino, Baldassarre
Peruzzi, Lorenzo Lotto e altri) per la decorazione, da poco avviata, dei nuovi
appartamenti papali, le Stanze. Le sue prove nella volta della prima, poi detta
Stanza della Segnatura, piacquero così tanto al papa che decise di affidargli,
fin dal 1509, tutta la decorazione dell'appartamento, a costo anche di
distruggere quanto già era stato fatto, sia ora sia nel Quattrocento (tra cui
gli affreschi di Piero della Francesca).
Alle pareti Raffaello decorò
quattro grandi lunettoni, ispirandosi alle quattro facoltà delle università
medioevali, ovvero teologia, filosofia, poesia e giurisprudenza, cosa che ha
fatto pensare che la stanza fosse originariamente destinata a biblioteca o
studiolo.
Opere celeberrime sono la Disputa
del Sacramento, la Scuola di Atene o il Parnaso. In queste dispiegò una visione
scenografica ed equilibrata, in cui le masse di figure si dispongono, con gesti
naturali, in simmetrie solenni e calcolate, all'insegna di una monumentalità e
una grazia che vennero poi definite "classiche".
LA STANZA DI ELIODORO
Liberazione di san Pietro, Stanza di Eliodoro |
Nel 1511, mentre i lavori alla
Stanza della Segnatura andavano esaurendosi, il papa tornava da una disastrosa
guerra contro i francesi, che gli era costata la perdita di Bologna e la tanto
temuta presenza di eserciti stranieri in Italia, nonché un forte spreco di
risorse finanziarie. Il programma decorativo della successiva stanza, destinata
a sala delle Udienze e poi detta di Eliodoro dal nome di uno degli affreschi,
tenne conto della particolare situazione politica: venne deciso infatti di
realizzare scene legate al superamento delle difficoltà della Chiesa grazie
all'intervento divino.
Già il primo degli affreschi, la
Cacciata di Eliodoro dal Tempio, mostra un radicale sviluppo stilistico, con
l'adozione di un inedito stile "drammatico", fatto di azioni
concitate, pause e asimmetrie, impensabile nei pur recentissimi affreschi della
stanza precedente. Assiste dalla sinistra dell'affresco il papa imperturbabile,
come se fosse davanti a una rappresentazione teatrale.
Nella Messa di Bolsena tornano
ritmi pacati, anche se la profondità dell'architettura e gli effetti luminosi
creano un'innovativa drammaticità; il colore si arricchì di campiture dense e
più corpose, forse derivate dall'esempio dei pittori veneti attivi alla corte
papale.
Di nuovo nell'Incontro di Leone
Magno con Attila ricorrono asimmetrie e azione, mentre nella Liberazione di san
Pietro si raggiunge il culmine degli studi sulla luce, con una scena in
notturna ravvivata dai bagliori lunari e dell'apparizione angelica che libera
il primo pontefice dalla prigionia.
All'inizio del 1513 Giulio II
morì, e il suo successore, Leone X, confermò tutti gli incarichi a Raffaello,
affidandogliene presto anche di nuovi.
PER AGOSTINO CHIGI
Mentre la fama di Raffaello si
andava espandendo, nuovi committenti desideravano avvalersi dei suoi servigi,
ma solo quelli più influenti alla corte papale poterono riuscire a distoglierlo
dai lavori in Vaticano. Tra questi spiccò sicuramente Agostino Chigi,
ricchissimo banchiere di origine senese, che si era fatto costruire in quegli
anni la prima e imitatissima villa urbana da Baldassarre Peruzzi, quella poi
detta villa Farnesina.
Raffaello vi fu chiamato a
lavorare a più riprese, prima con l'affresco del Trionfo di Galatea (1511), di
straordinaria rievocazione classica, poi alla Loggia di Psiche (1518-1519) e
infine alla camera con le Storie di Alessandro, opera incompiuta creata poi dal
Sodoma[28].
Inoltre per i Chigi Raffaello
eseguì l'affresco delle Sibille e angeli (1514) in Santa Maria della Pace e
soprattutto l'ambizioso progetto della Cappella Chigi in Santa Maria del
Popolo, dove l'artista curò anche la progettazione dell'architettura, i cartoni
per i mosaici della cupola e, probabilmente, i disegni per le sculture,
eseguite dal Lorenzetto e completate, anni dopo, da Gianlorenzo Bernini[28].
I RITRATTI
Accanto all'attività di
frescante, un'altra delle fondamentali occupazioni di quegli anni è legata ai
ritratti, dove apportò molteplici innovazioni sul tema. Già nel Ritratto di
cardinale oggi al Prado (1510-1511), l'uso di un punto di vista ribassato e il
conseguente leggero scorcio delle spalle e della testa introdusse un
aristocratico distacco confermato dall'atteggiamento impassibile del
personaggio[29]. Il Ritratto di Baldassarre Castiglione (1514-1515), grazie
alla rara affinità spirituale tra effigiato ed effigiante, riesce a incarnare
quell'ideale di perfezione estetica e interiore della cortigianeria espressa
nel celebre trattato del Cortegiano. Nel Ritratto di Fedra Inghirami
(1514-1516) anche un difetto fisico come lo strabismo viene nobilitato dalla
perfezione formale dell'opera.
Ma fu soprattutto col Ritratto di
Giulio II che le innovazioni si fecero più evidenti, con un punto di vista
diagonale e leggermente dall'alto, studiato come se lo spettatore si trovasse
in piedi accanto al pontefice. L'atteggiamento di malinconica pensosità, così
indicatore della situazione politica dell'epoca (il 1512), introduce un elemento
psicologico fino ad allora estraneo dalla ritrattistica ufficiale. In pratica
lo spettatore è come se si trovasse al cospetto del pontefice, senza alcun
distacco fisico o psicologico[29].
Un'impostazione simile venne
replicata anche nel Ritratto di Leone X con i cardinali Giulio de' Medici e
Luigi de' Rossi (1518-19, Uffizi), in cui il papa, di nuovo con una prospettiva
basata su linee diagonali, è rappresentato mentre, sospesa la lettura di un
prezioso codice miniato, si trova al cospetto dei due cardinali cugini, con un
intreccio di sguardi e gesti che sonda lo spazio in profondità, calibrandosi su
un'estrema armonia. Lo straordinario virtuosismo nella resa dei dettagli, come
la resa materica della mozzetta, la campanella cesellata o il riflesso della
stanza nel pomello della sedia, aiuta a creare quell'immagine di splendore
tanto cara al pontefice[30].
LA FORNARINA
Sempre agli stessi anni (1518-19)
risale il celeberrimo ritratto di donna noto come La Fornarina, opera di dolce
e immediata sensualità unita a vivida luminosità. Secondo una ricostruzione
priva di fondamento scientifico e documentale, l'artista vi avrebbe ritratto
seminuda la sua musa-amante, sull'identificazione della quale sono poi fiorite
romantiche leggende. Lo studio di Giuliano Pisani mostra come il termine
“Fornarina” (usato nel 1772 dall'incisore Domenico Cunego) rimandi a una
tradizione linguistica consolidata, attestata già in Anacreonte (VI a.C.) e in
numerosi documenti letterari di età antica, medievale, rinascimentale e moderna,
in cui “forno” e derivati (“fornaio”, “fornaia”, “infornare”, ecc.) indicano
metaforicamente l'organo sessuale femminile e le pratiche connesse
all'accoppiamento. La domanda corretta non è dunque “chi sia” la Fornarina
(domanda alla quale dovremmo rispondere semplicemente che è una modella, e non
la figlia di un fornaio), ma quale sia il soggetto del dipinto, che cosa
rappresenti. Pisani, attraverso opportuni confronti (in particolare con
Tiziano, Amor sacro e amor profano, ipotizza che Raffaello, sulla scorta di
Marsilio Ficino e di Pietro Bembo, ritragga nella Fornarina la Venere celeste,
l'amore che eleva gli spiriti alla ricerca della verità attraverso l'idea
sublimata della bellezza, e che si distingue dall'altra Venere, quella
terrestre, forza generatrice della natura, che guarda alla bellezza terrena e
ha come fine la procreazione. Alla Fornarina corrisponderebbe in tal senso la
Velata, identificata come Venere terrestre, sposa e madre.
IL RINNOVO DELLA PALA D’ALTARE
L'altro motivo fondamentale di
questa stagione è quello legato alle radicali trasformazioni messe in atto sul
tema della pala d'altare, all'insegna di un sempre più profondo coinvolgimento
dello spettatore. Già nella Madonna di Foligno (1511-1512) lo schema tradizionale
dell'ancona è superato dai continui rimando tra parte superiore e inferiore,
con un'orchestrazione cromatica che dà unità all'insieme, compreso il vibrante
paesaggio sullo sfondo, legato a un evento miracoloso che era stato all'origine
della commissione.
Il passo decisivo si compì però
con la Madonna Sistina (1513-1514), dove una tenda scostata e una balaustra
fanno da cornice a un'apparizione terrena di Maria, scalza e priva di aureola,
ma resa sovrannaturale dall'area luminosa che la circonda. Attorno a essa due
santi guardano e indicano fuori dalla pala, come a voler introdurre gli
invisibili fedeli a Maria, verso i quali essa sembra incedere, miracolosamente
immota ma spinta da un vento che le agita la veste. Anche i due celeberrimi angioletti
pensosi, appoggiati in basso, hanno il ruolo di mettere in connessione la sfera
terrena e reale con quella celeste e dipinta.
Punto di arrivo è la pala con
l'Estasi di santa Cecilia (1514), tutta giocata su un'impalpabile presenza del
divino, interiorizzato dallo stato estatico della santa che rinuncia alla
musica terrena, raffigurata nella straordinaria natura morta di vecchi
strumenti musicali ai suoi piedi, in favore della musica eterna e celeste
dell'apparizione del coro di angeli in alto. Riferibile a quest'opera, per
lo meno nella fisiognomia della Vergine, si reputa la "Madonna del Divino
amore" (1516) , soggetto sulla cui ideazione e realizzazione recentemente
è stata riportata la responsabilità a Raffaello stesso (e di cui esiste una
copia di Gian Francesco Penni alla Chiesa della Sacra Famiglia di Cinisello
Balsamo)
Le tavole
Nonostante gli impegni proseguì
la produzione di tavole destinate all'uso privato. Ad esempio il tema della
madonna col Bambino raggiunge il culmine sublime di perfezione geometrica e
armonizzazione spontanea e naturale dei sentimenti nella Madonna della Seggiola
(1513-1514 circa). Figure emblematiche come La Velata (1516 circa) e La
Fornarina (forse l'amante dell'artista) mostrano un'impareggiabile qualità pittorica
e un virtuosismo che non mettono mai in secondo piano la vivida descrizione
delle protagoniste.
LA BOTTEGA
Per far fronte alla sua crescita
di popolarità e alla conseguente mole di lavoro richiesto, Raffaello mise su
una grande bottega, strutturata come una vera e propria impresa capace di
dedicarsi a incarichi sempre più impegnativi e nel minor tempo possibile,
garantendo comunque un alto livello qualitativo. Prese così all'apprendistato
non solo garzoni e artisti giovani, ma anche maestri già affermati e di talento.
A trent'anni circa Raffaello era
il titolare della più attiva bottega di pittura a Roma, con una schiera di
aiuti che inizialmente si dedicavano essenzialmente a lavori preparatori e di
rifinitura di dipinti e affreschi[28]. Col tempo, negli anni avanzati del
periodo romano, la quasi totalità dei lavori di Raffaello vide poi un
contributo sempre maggiore della bottega nella stesura pittorica, mentre la
preparazione dei disegni e dei cartoni restava solitamente ad appannaggio del
maestro. L'integrazione tra le varie figure era tale che risulta difficoltoso
anche distinguere la paternità di opere e disegni, tanto più che i vari artisti
della sua scuola furono individualmente incaricati di completare le varie opere
pittoriche e architettoniche lasciate incompiute. Il sistema di lavoro della
bottega, per un periodo ospitata nella stessa casa di Raffaello (Palazzo
Caprini), era strutturato con efficienza e formò un'intera generazione di
artisti.
Il suo atelier fu per certi versi
opposto a quello di Michelangelo, che preferiva lavorare con appena i modesti
aiuti indispensabili (preparazione dei colori, degli intonaci per gli
affreschi, ecc.) mantenendo una leadership assoluta sull'esito dell'opera
finale. Raffaello invece, con l'andare degli anni, delegava invece sempre
più spesso parti consistenti del lavoro ai suoi assistenti, che ebbero così una
crescita professionale notevole. Ne è esempio Giovanni da Udine, che assoldato
come decoratore professionale specializzato in grottesche, divenne un valido
creatore di nature morte con originalità ed eleganza, anticipando le scene di
genere seicentesche. Allievi fedeli e duttili furono Tommaso Vincidor, Vincenzo
Tamagni o Guillaume de Marcillat, mentre aggiungevano alla bottega un bagaglio
di conoscenze polivalenti, dall'architettura alla scultura, personalità come
Lorenzo Lotti.
Giovan Francesco Penni fu un vero
e proprio factotum della bottega, capace di imitare i modelli del maestro alla
perfezione, tanto che è difficile distinguere la sua migliore produzione grafica
da quella di Raffaello; la sua scarsa inventiva però lo resero una figura di
secondo piano dopo la scomparsa del maestro.
L'allievo più conosciuto e quello
capace poi di avere la migliore carriera artistica indipendente fu Giulio
Romano, che dopo la morte del maestro si trasferì a Mantova diventando uno dei
massimi interpreti del manierismo italiano. Un altro allievo affermato fu Perin
del Vaga, fiorentino dallo stile elegante e accentuatamente disegnativo, che
dopo il Sacco di Roma si trasferì a Genova dove ebbe un ruolo fondamentale
nella diffusione locale del linguaggio raffaellesco.
Altri artisti che ebbero poi una
carriera indipendente di successo furono Polidoro da Caravaggio, Alonso
Berruguete e Pedro Machuca.
Raffaello collaborò anche con
numerosi incisori come Marcantonio Raimondi, Agostino Veneziano, Marco Dente e
Ugo da Carpi a cui affidò la realizzazione di stampe tratte da propri dipinti o
disegni, assicurando una grande diffusione alla propria opera figurativa.
STANZA DELL’INCENDIO AL BORGO
Incendio di Borgo |
Nelle Stanze Leone X non fece
altro che confermare a Raffaello il ruolo che aveva sotto il suo predecessore.
La terza Stanza, poi detta dell'Incendio di Borgo, fu incentrata sulla
celebrazione del pontefice in carica attraverso le figure di suoi omonimi
predecessori, come Leone III e IV. La lunetta più famosa, nonché l'unica col
consistente intervento diretto del maestro, è quella dell'Incendio di Borgo
(1514) in cui cominciano ormai a essere evidenti i debiti verso il dinamismo
turbinoso degli affreschi di Michelangelo, reinterpretati però con altri
influssi, fino a generare un nuovo "classicismo", scenografico e
monumentale, ma dotato anche di grazia e armonia.
GLI ARAZZI PER LA SISTINA
Le imprese che distolsero il
Sanzio dall'esecuzione materiale degli affreschi nella terza Stanza furono
essenzialmente la nomina a sovrintendente della basilica vaticana dopo la morte
di Bramante (11 aprile 1514) e quella degli arazzi per la Cappella Sistina.
Leone X desiderava infatti legare anche il proprio nome alla prestigiosa impresa
della Cappella pontificia, facendo decorare l'ultima fascia rimastra libera, il
registro più basso dove si trovavano i finti tendaggi e dove decise di far
tessere a Bruxelles una serie di arazzi da appendere in occasione delle
liturgie più solenni. La prima notizia sulla commissione risale al 15
giugno 1515.
Raffaello, trovandosi a confronto
direttamente coi grandi maestri del Quattrocento e soprattutto con Michelangelo
e la sua sfolgorante volta, dovette aggiornare il proprio stile, adattandosi
anche alle difficoltà tecniche dell'impresa che prevedevano la stesura di
cartoni rovesciati rispetto al risultato finale, la limitazione della gamma
cromatica rispetto alle tinture disponibili dei filati e il dover rinunciare ai
dettagli troppo minuti, preferendo grandi campiture di colore.
Nei sette su dieci cartoni
conservati oggi al Victoria and Albert Museum di Londra si nota come il Sanzio
seppe superare tutte queste difficoltà, semplificando la determinazione dei
piani in profondità e scandendo con maggiore forza l'azione grazie a una netta
contrapposizione tra gruppi e figure isolate e ricorrendo a gesti eloquenti, di
immediata leggibilità, all'insegna di uno stile "tragico" ed
esemplare.
COMMISSIONI INEVASE
Nonostante la velocità e
l'efficienza della bottega, la notevole consistenza degli aiuti e l'eccellente
organizzazione lavorativa, la fama di Raffaello andava ormai ben oltre le reali
possibilità di soddisfare le richieste e molte commissioni, anche importanti,
dovettero essere a lungo rimandate o inevase. Le clarisse di Monteluce di
Perugia dovettero aspettare circa vent'anni prima di ottenere una pala con
l'Incoronazione della Vergine commissionata nel 1501-1503 circa e dipinta solo
dopo la morte dell'artista da Giulio Romano su disegni appartenenti alla
gioventù del maestro. Il cardinale Gregorio Cortesi provò nel 1516 a chiedergli
affreschi per il refettorio del convento di San Polidoro a Modena[36], mentre
l'anno successivo Lorenzo duca d'Urbino, nipote del papa, avrebbe voluto che
l'artista disegnasse il suo profilo da battere nelle monete del ducato.
Isabella d'Este non riuscì mai a
ottenere un "quadretto" di mano di Raffaello per il suo studiolo,
né vi riuscì suo fratello Alfonso per i camerini d'alabastro: nonostante il
versamento di un acconto e le ripetute insistenze degli ambasciatori ferraresi
alla corte pontificia (ai quali Raffaello arrivò anche a fingersi impegnato pur
di non riceverli), alla fine il Trionfo di Bacco dovette essere dipinto da
Tiziano. Nel frattempo però il marchese aveva ricevuto numerosi cartoni e
disegni di Raffaello per non perderne le grazie.
RAFFAELLO ARCHITETTO
Cupola della cappella Chigi |
Quando Raffaello decise di
accettare l'incarico di soprintendente ai lavori nella basilica vaticana, il
più importante cantiere romano, egli aveva già alle spalle alcune esperienze in
questo campo. Le stesse architetture dipinte, sfondo di tante celebri opere,
mostrano un bagaglio di conoscenze che va di là dal consueto apprendistato di
un pittore.
Già per Agostino Chigi aveva
curato le cosiddette "Scuderie" di villa Farnesina (distrutte, ne
resta solo il basamento su via della Lungara) e la cappella funeraria in Santa
Maria del Popolo. Inoltre aveva atteso alla costruzione della piccola chiesa di
Sant'Eligio degli Orefici. In queste opere si nota un reimpiego di motivi
derivati dall'esempio di Bramante e di Giuliano da Sangallo, coniugati con
suggestioni dell'antico, all'insegna di una notevole originalità.
La Cappella Chigi ad esempio
riproduce in piccolo la pianta centrale dei quattro piloni angolari di San
Pietro, ma aggiornati a modelli antichi come il Pantheon e tendenzialmente
decorati con maggiore ricchezza e vivacità, con connessioni armoniose alle
strutture architettoniche. Nel novembre 1515 dovette partecipare a Firenze alla
gara per la facciata di San Lorenzo, vinta poi da Michelangelo.
BASILICA DI SAN PIETRO
Fu così che Raffaello si dedicò
al cantiere di San Pietro con entusiasmo, ma anche con un certo timore, come si
legge dal carteggio di quegli anni, per la dimensione dei suoi slanci che
vorrebbero eguagliare la perfezione degli antichi. Non a caso si fece fare da
Fabio Calvo una traduzione del De architectura di Vitruvio, rimasta inedita,
per poter studiare direttamente il trattato e utilizzarlo nello studio
sistematico dei monumenti romani.
Sebbene i lavori procedessero con
lentezza (Leone X era infatti molto meno interessato del suo predecessore al
nuovo edificio), suo fu il fondamentale contributo di ripristinare il corpo
longitudinale della basilica, da innestare sulla crociera avviata da
Bramante[37].
Nella progettazione Raffaello
utilizzò un nuovo sistema, quello della proiezione ortogonale (dice: l'architetto
non ha bisogno di saper disegnare come un pittore, ma di avere disegni che gli
permettono di vedere l'edificio così com'è), abbandonando la configurazione
prospettica del Bramante. Da una pianta attribuita a Raffaello si distingue una
navata di cinque campate, con navate laterali, che viene posta davanti allo
spazio cupolato bramantesco; i pilastri che presentano doppie paraste sia verso
la navata maggiore sia verso le navate laterali; vi si vede la facciata
costituita da un ampio portico a due piani.
Le fondazioni dei piloni si
mostrarono insufficienti; per questa ragione si decise di posizionare le pareti
(quelle più sollecitate dal carico) più vicine ai piloni della cupola. L'ordine
gigante della crociera proseguiva sui pilastri del transetto, e le colonne tra
i pilastri formavano un ordine minore.
Raffaello non aveva alcuna
intenzione di modificare la cupola di Bramante: l'aspetto esterno della chiesa
sarebbe stato dominato dal sistema trabeato all'antica, composto cioè da
sostegni verticali e architravi orizzontali senza l'uso di archi. Sia nei
deambulatori sia sulla facciata, colonne libere o semicolonne addossate alla
muratura sostengono una trabeazione dorica.
Antonio da Sangallo il Giovane,
successore di Raffaello (1520), espose però i difetti del progetto di Raffaello
in un famoso memoriale.
PALAZZI
Raffaello progettò (secondo
Vasari) il palazzo Branconio dell'Aquila per il protonotario apostolico
Giovanbattista Branconio dell'Aquila, demolito poi nel Seicento per fare spazio
al colonnato del Bernini di fronte a San Pietro. La facciata aveva cinque
campate, ispirate a Palazzo Caprini di Bramante, ma si distaccava dal modello
del maestro. Il pianterreno ad esempio doveva essere affittato a botteghe e non
era di bugnato, ma articolato da un ordine tuscanico che incorniciava arcate
cieche. Al piano superiore abbandonò gli ordini classici, rompendo così la
tradizione da Palazzo Rucellai, e fu superata anche la tradizionale distinzione
chiara tra elementi portanti e parti di riempimento.
Altri palazzi quasi certamente
furono progettati da Raffaello, con l'aiuto della sua bottega, che comprendeva
Giulio Romano, sono il Palazzo Jacopo da Brescia e il Palazzo Alberini.
Palazzo Vidoni Caffarelli,
nonostante sia stato attribuito per molto tempo a Raffaello, non fu progettato
personalmente dal maestro, ma sicuramente da un suo allievo, probabilmente
Lorenzo Lotti, e rispecchia comunque un modello e uno stile riferibile non solo
a Raffaello ma anche a Bramante. A Raffaello è attribuito, secondo anche quanto
riportato dal Vasari, anche il progetto di Palazzo Pandolfini a Firenze,
avviato dal 1516, dove però sovrintese i lavori Giovanfrancesco da Sangallo e
poi Bastiano da Sangallo, detto Aristotile. Non è chiaro se il palazzo,
insolitamente a due soli piani invece dei tre canonici, sia incompleto o no.
VILLA MADAMA
Un altro progetto, destinato a
trovare grande risonanza e sviluppi per tutto il Cinquecento, fu quello
incompiuto di Villa Madama alle pendici del Monte Mario, iniziatosi nel 1518 su
incarico di Leone X e del cardinale Giulio de' Medici. L'impostazione
rinascimentale della villa venne rielaborata alla luce della lezione
dell'antico, con forme imponenti e una particolare attenzione all'integrazione
tra edificio e ambiente naturale circostante. Attorno al cortile centrale
circolare si dovevano dipartire una serie di assi visivi o di percorso, in un
susseguirsi di logge, saloni, ambienti di servizio e locali termali, fino al
giardino alle pendici del monte, con ippodromo, teatro, stalle per duecento
cavalli, fontane e giochi d'acqua[37]. Delicatamente calibrata è la
decorazione, in cui si fondono affreschi e stucchi ispirati alla Domus Aurea e
ad altri resti archeologici scoperti in quell'epoca[40].
L'opera venne sospesa all'epoca
di Clemente VII e danneggiata durante il Sacco di Roma.
In Villa Madama si trova la
stessa insistenza sulle visuali interne, come nella Cappella Chigi, e la
medesima rinuncia a un sistema strutturale che governi tutto l'insieme, come
nel palazzo Branconio dell'Aquila. Nessun edificio precedente aveva riprodotto
così esattamente la funzione e le forme degli antichi modelli romani: struttura
e ornamento si fondono insieme.
LO STUDIO DELL’ANTICO
Sotto il pontificato di Leone X,
Raffaello ricevette anche l'incarico di custodia e registrazione dei marmi
antichi, che lo portò a condurre un attento studio delle vestigia, per esempio
esaminando le strutture e gli elementi architettonici del Pantheon come nessuno
aveva fatto fino a quel momento.
Il progetto più coinvolgente e
ambizioso in questo settore fu quello di redigere una pianta di Roma imperiale,
che richiese la messa a punto di un procedimento sistematico di rilievo e di
rappresentazione ortogonale. L'ausilio venne fornito da uno strumento munito di
bussola, descritto in una lettera al papa, che venne redatta con Baldassarre
Castiglione e in cui si trova anche una famosa, appassionata espressione di
ammirazione per la cultura classica. La volontà di misurarsi con essa non
poteva prescindere dall'esigenza di conservarne i resti, lamentandosi per le
distruzioni, non tanto quelle dei barbari, ma di quelle dovute all'incuria e
alla superficialità dei precedenti pontefici, arrivando a perdere l'immagine e
la memoria stessa della Roma antica[42].
Il tema del "paragone de li
antichi" divenne centrale nelle opere degli ultimi anni del Sanzio, sia
come rivivere dei miti, sia nel raggiungimento della perduta perfezione
formale. In opere come la Loggia di Psiche o le grottesche della Stufetta o
della Loggetta del cardinal Bibbiena viene elaborato un sistema di decorazione
all'antica, evocato da stucchi e affreschi nello stile della Domus Aurea
(scoperta qualche anno prima), fino alla ripresa di tecniche come l'encausto o
la pittura compendiaria con tocchi rapidi ed essenziali, ravvivati da
lumeggiature[43].
LE LOGGE
Le Logge che decorano la facciata
del palazzo niccolino in Vaticano, avviate da Bramante, vennero proseguite da
Raffaello, sia nell'esecuzione sia nella decorazione. Il Sanzio arricchì
l'articolazione delle pareti e coprì le campate con volte a padiglione, che
permisero alla sua bottega di disporre di piani più vasti per la decorazione
pittorica. Quest'ultima, avviata nel 1518, vide l'opera di un folto numero di
assistenti, e comprendeva una sessantina di storie dell'Antico e Nuovo
Testamento, tanto che venne chiamata la "Bibbia di Raffaello".
LA TRASFIGURAZIONE
Nel 1516 il cardinale Giulio de' Medici
mise su una sorta di competizione tra i due più grandi pittori attivi in Roma,
Raffaello e Sebastiano del Piombo (alle cui spalle stava l'amico Michelangelo),
ai quali richiese una pala ciascuno da destinare alla cattedrale di Narbona, la
sua sede vescovile. Raffaello lavorò piuttosto lentamente all'opera, tanto che
alla sua morte era ancora incompleta e vi mise sicuramente mano Giulio Romano
nella parte inferiore, anche se non si conosce in quale misura. La sua opera
riguardava la Trasfigurazione di Cristo, che era fusa per la prima volta con
l'episodio evangelico distinto della Guarigione dell'ossesso[44].
Opera dinamica e innovativa, con
uno sfolgorante uso della luce, mostra due zone circolari sovrapposte, legate
da molteplici rimandi di mimica e gesti. Forza drammatica è sprigionata dal
contrasto tra la composizione simmetrica della parte superiore e la concitata
gestualità e le dissonanze di quella inferiore, raccordandosi però sull'asse
verticale fino all'epifania divina, che scioglie tutti i drammi[44].
LA MORTE
Tomba di Raffaello |
Raffaello morì il 6 aprile 1520,
a soli 37 anni, nel giorno di Venerdì Santo. Secondo Vasari la morte
sopraggiunse dopo quindici giorni di malattia, iniziatasi con una febbre
"continua e acuta", causata secondo il biografo da "eccessi
amorosi", e inutilmente curata con ripetuti salassi.
Uno dei testimoni del cordoglio
suscitato dalla morte dell'artista è Marcantonio Michiel, che in alcune lettere
descrisse il rammarico "d'ogn'uno et del papa" e il dolore dei
letterati per il mancato compimento della "descrittione et pittura di Roma
antiqua che'l faceva, che era cosa bellissima". Inoltre non mancò di
sottolineare i segni straordinari che si avverarono come alla morte di Cristo:
una crepa scosse il palazzo vaticano, forse per effetto di un piccolo
terremoto, e i cieli si erano agitati[36]. Scrisse Pandolfo Pico della
Mirandola a Isabella d'Este che il papa, per paura, "dalle sue stantie è
andato a stare in quelle che fece fare papa Innocentio".
Si tratta di un leit motiv dei
contemporanei del Sanzio che, all'apogeo del suo successo, lo consideravano
tanto "divino" da paragonarlo a una reincarnazione di Cristo: come
lui era morto di Venerdì santo e a lungo venne distorta la sua data di nascita
per farla coincidere con un altro Venerdì santo. Lo stesso aspetto con la barba
e i capelli lunghi e lisci scriminati al centro, visibili ad esempio
nell'Autoritratto con un amico, ricordavano da vicino l'effigie del Cristo,
come scrisse Pietro Paolo Lomazzo: la nobiltà e la bellezza di Raffaello
"rassomigliava a quella che tutti gli eccellenti pittori rappresentano nel
Nostro Signore". Al coro di lodi si unì Vasari, che lo ricordò "di
natura dotato di tutta quella modestia e bontà che suole vedersi in colore che
più degli altri hanno a certa umanità di natura gentile aggiunto un ornamento
bellissimo d'una graziata affabilità".
Nella camera ove egli morì era
stata appesa, alcuni giorni prima della morte, la Trasfigurazione e la visione
di quel capolavoro generò ancora più sconforto per la sua perdita. Scrisse
Vasari a tal proposito: «La quale opera, nel vedere il corpo morto e quella
viva, faceva scoppiare l'anima di dolore a ognuno che quivi guardava».
La sua scomparsa fu salutata dal
commosso cordoglio dell'intera corte pontificia. Il suo corpo fu sepolto nel
Pantheon, come egli stesso aveva richiesto.
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